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15 settembre 2024

Come ogni anno AISLA Trentino Alto Adige ha ricordato la Giornata Nazionale della SLA, che ricorre il 15 settembre, con la presenza in piazza Pasi a Trento dei nostri volontari.
Quest’anno abbiamo portato con noi 204 bottiglie di Barbera D'Asti DOCG unendoci al motto "Un contributo versato con gusto".
I proventi delle donazioni raccolte domenica saranno devoluti in parte all'ormai famosa "Operazione Sollievo", che negli anni ha permesso di rispondere concretamente alle esigenze delle famiglie attraverso l'offerta di alcuni servizi, mentre una piccola parte resterà a disposizione dell’Associazione per sostenere le nostre attività quotidiane di aiuto e di organizzazione.
Un grazie di cuore a tutti coloro che ci hanno dato una mano, che si sono portati a casa una buona bottiglia di vino o che semplicemente sono passati a trovarci.

La SLA è una malattia cronica che modifica profondamente la vita. Chi ne è colpito non potrà fronteggiarla da solo: avrà bisogno degli altri per muoversi, per mangiare, per comunicare, per respirare. Normalmente questi bisogni primari non pesano sulla relazione tra persone adulte, sane e indipendenti.
La SLA, però, comporta un cambiamento: la famiglia, gli amici, i colleghi, i medici, lo psicologo, gli infermieri, il personale d’assistenza possono diventare risorse preziose per aiutare chi ne è colpito a superare gli ostacoli che la malattia comporta. Insieme agli altri gli sarà più facile trovare le cure e gli ausili capaci di ridurre i sintomi e di fargli conservare la maggior autonomia possibile. Purtroppo, nel nostro Paese l’offerta di cure appropriate è ancora largamente insufficiente: i pazienti con SLA che riescono a usufruirne sono infatti una minoranza.
Troppo spesso, dopo la diagnosi, prevale un clima di sfiduciato disimpegno e di rinuncia terapeutica. I pazienti e i loro familiari sono poco e male informati; non conoscendo la malattia non possono, quindi, contrastarne gli effetti negativi. Alcuni medici, che pure conoscono la SLA, sembrano ignorare l’esistenza di concrete possibilità di cura.
D’altra parte va detto che intervenire in modo appropriato e tempestivo è molto difficile: non basta la buona volontà. Sono necessarie competenze specifiche e diverse che solo un gruppo di lavoro può garantire. L’équipe può essere costituita dal medico di base, dal neurologo e dal personale d’assistenza, o arrivare a comprendere neurologo, neurofisiologo, fisiatra, pneumologo, rianimatore, gastroenterologo, psicologo, dietista, ortofonista, fisioterapista, fisioterapista esperto in ausili, infermieri particolarmente formati, assistente sociale.
Gli interventi dei vari specialisti dovrebbero comunque essere coordinati da un unico medico curante (in genere il medico di base o il neurologo) e il paziente dovrebbe (come nel caso di tutte le malattie croniche) poter essere assistito presso la propria abitazione. In Italia gruppi di lavoro di questo tipo sono purtroppo rari. Il loro esempio dimostra, tuttavia, che è possibile agire sulla malattia e migliorare la qualità di vita di chi ne è colpito e dei suoi familiari.
Quanto accennato richiede progetti finalizzati a rimuovere ostacoli culturali e strutturali quali la separazione tra servizi ospedalieri e servizi per le cure domiciliari o la tendenza a inseguire risposte miracolose lontano da casa. In ogni caso, una maggiore conoscenza della SLA e delle sue problematiche socio- assistenziali rappresenta il primo passo per tutelare il diritto alla cura del malato. Come pubblicato sul Supplemento ordinario alla “Gazzetta Ufficiale” n. 226 del 25/9/1999, “i soggetti affetti da pluripatologie che abbiano determinato grave e irreversibile compromissione di più organi e apparati”, tra cui rientrano i pazienti con SLA (gruppo riconosciuto con cod. 049), sono esenti dal pagamento del ticket. Inoltre, i malati di SLA possono ottenere dal Centro di riferimento l’esenzione per malattia rara con codice RF0100, che dà diritto a una serie di agevolazioni sugli ausili (per esempio carrozzine, comunicatori, modifiche dell’ambiente domestico) e alla rimborsabilità di farmaci anche normalmente non mutuabili perché prescritti con piano terapeutico da un Centro SLA accreditato.

Diagramma di approfondimento:

La diagnosi di SLA è difficile: richiede diverse indagini mediche e la valutazione clinica ripetuta nel tempo da parte di un neurologo esperto. Non esiste, infatti, un esame specifico che consenta di accertare immediatamente e senza alcun dubbio la malattia. Compito del medico di famiglia è, quindi, quello di sospettare la SLA fin dai primi sintomi e di indirizzare subito il paziente al neurologo. Spesso, al termine degli esami iniziali (Tabella 1) sarà possibile solo formulare una diagnosi provvisoria: saranno state escluse alcune patologie, ma per giungere al responso definitivo occorrerà aspettare e valutare l’andamento della malattia nel tempo (Tabella 2).
L’incertezza, quindi, potrebbe protrarsi anche per diversi mesi, con conseguenze pesanti sullo stato d’animo del malato.
Se la diagnosi fosse incerta o provvisoria, può essere utile chiedere al proprio neurologo di indicare un collega esperto di SLA cui rivolgersi con la documentazione clinica per avere un secondo parere specialistico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un rapporto medico-paziente basato su fiducia reciproca e sincerità nella comunicazione è la miglior arma per affrontare il momento della diagnosi. Se questo rapporto non esiste, o è troppo fragile per sopportare l’angoscia legata a una prognosi grave, la diagnosi non è comunicata al malato bensì ai suoi familiari, che ricevono la pesante responsabilità di accompagnarlo nella conoscenza di una malattia misteriosa e senza nome.

La storia di Carlo, raccontata dalla figlia Anna e un po’ anche da Carlo

“Ho pensato che dovevo darmi un obiettivo. E così ho fatto.” “Quando scrivo, quando lavoro, non mi sento neanche malato”.
Papà era fatto così. Non si lasciava abbattere neanche da una sentenza. Era un uomo forte, che ha fatto del bene a tanti. Anche chi non lo conosceva di persona poteva sentire la sua immensa forza attraverso le sue parole riportate da un quotidiano e attraverso l’eco del suo lavoro di ricerca.
Si dice che chi ha frequentato Economia a Trento sia passato da lui, sempre. Docente dell’Università di Trento dal 1976 al 2019, presidente di Euricse (uno dei maggiori centri di studi e ricerca al mondo sull’economia sociale e cooperativa), insignito del titolo di commendatore, era un punto di riferimento per il mondo cooperativo.
Ma la vita, così intensa e così piena, gli ha riservato anche una grande prova, la più dura di tutte. E di riflesso la ha riservata anche a noi famigliari. Quando ricevette la diagnosi ebbe un momento di assoluto smarrimento. “Perché proprio a me?” È una domanda inevitabile, che non risparmia nessuno. Eppure, nonostante la malattia lo avesse portato a dover stravolgere la sua vita, non si è lasciato trascinare dallo sconforto. Papà, fin da subito, infatti, ha dovuto smettere di viaggiare e tenere conferenze, ma lui, da ricercatore quale era, ha permesso subito alla razionalità di subentrare e si è dato un nuovo obiettivo. Anzi, più di uno.
Durante gli anni di lavoro continuo e di presidenza di Euricse non aveva avuto il tempo per portare avanti alcuni progetti personali, perché troppo impegnato su diversi fronti. Ha colto il momento della malattia come un’opportunità per dedicarsi a nuove sfide: un volume sui contratti di rete per l’inserimento lavorativo, uno sull’impresa sociale, uno sul pluralismo delle forme d’impresa e, “se mai riuscirò” diceva, uno sulla rilevanza economica del meccanismo cooperativo e sulla sua diversità da quello del mercato e dell’autorità. È riuscito a pubblicare i primi 3. E pensare che sperava di chiudere almeno i primi 2!
Ha avuto una piccola fortuna, se così si vuole chiamare. “La malattia si presentava molto aggressiva e già dopo tre mesi dalla diagnosi avevo grosse difficoltà nella deglutizione, nel linguaggio e nell’uso della gamba destra”, racconta nel suo scritto letto al convegno per la Giornata delle Malattie Neuromuscolari tenutosi a Trento a marzo del 2023. “Se sono ancora qui in presenza, anche se in silenzio obbligatorio, lo devo con tutta probabilità – direi quasi sicuramente - alla ricerca. A fine 2021 mi è stato infatti comunicato da Torino, dove ero stato mandato subito dopo la diagnosi e avevo dato l’assenso per l’esame del DNA, che il mio tipo di SLA era di natura genetica e rientravo nel 2 o 3 percento di malati per i quali era stata predisposta una terapia sperimentale - il Tofersen - che aveva dato risultati positivi. Ho ovviamente accettato di sottopormi alla terapia, sempre seguito dal Centro NeMO e da allora gli unici peggioramenti che ho avuto si sono concentrati nella parte bulbare, quelli del linguaggio e del rilascio della mandibola. Riesco ancora a camminare e soprattutto a scrivere. Quando mi è stata diagnosticata la malattia nessuno sapeva di questo farmaco o meglio dei suoi risultati e questo fa ben sperare nelle potenzialità della ricerca, in cui tra l’altro è fortemente impegnata anche la mia Università con i progetti portati avanti dal Dipartimento del Cibio. Se il Tofersen fosse arrivato qualche mese prima probabilmente anche la parte bulbare potrebbe ancora funzionare.
Questa combinazione di un approccio clinico innovativo e di ricerca mirata mi ha permesso di concludere nel modo previsto il mio incarico in Euricse, di portare avanti i miei progetti, di continuare a interloquire con miei colleghi ed ex-collaboratori e di aiutarli in vario modo. Perfino di supervisionare i lavori nell’orto! E soprattutto di godere dell’affetto di mia moglie, dei figli, delle nipoti e degli amici.
Se da una parte la mia esperienza insegna che queste malattie neuromuscolari si affrontano meglio se non ci si lascia andare e ci si dà un obiettivo per cui vivere compatibile con le inevitabili menomazioni, dall’altra credo di non poter essere un esempio in senso stretto, perché i miei obiettivi si sono rivelati compatibili con la possibilità - anche se non perfetta - di usare le mani che la malattia mi ha lasciato. Per altri, con professioni diverse o con parti diverse lese dalla malattia, non sarebbe così facile come lo è stato per me.
Io poi ho una seconda fortuna che non tutti hanno: di avere una famiglia che si è fatta carico del mio problema e mi è di continuo aiuto e di avere una pensione che mi ha permesso di cambiare casa e di assumere una persona che mi aiuta nelle attività quotidiane.
E allora il pensiero va a chi, soprattutto più giovane di me, non ha queste possibilità, perché è solo, perché non ha la casa sbarrierata, o non ha ancora un reddito da pensione e magari ha pure una famiglia da mantenere. Penso quindi che sia necessario “chiudere il cerchio”: accanto a una clinica innovativa e all’impegno nella ricerca, servirebbe una struttura di accoglienza anche solo temporanea, sul modello del co-housing, che consenta alle persone di non finire, magari cinquantenni, in una casa di riposo, ma che sia in grado di permettere loro di riprogrammarsi la vita in un contesto di relativa serenità. Finché dalla ricerca non arriveranno altri risultati in grado di curare anche le malattie neuromuscolari, questo sarebbe un ulteriore importante aiuto per tutti coloro che ne sono colpiti.”
Papà si era affidato completamente alle cure dei suoi medici ed era felice di avere l’onore di poter usufruire di un centro clinico d’eccellenza che metteva al primo posto il paziente e lo prendeva in carico globalmente.
“Il NeMO si distingue da altri centri clinici per almeno tre caratteristiche. Innanzitutto perché mette il “paziente al centro”, cioè si fa carico di garantire la presenza o il raccordo con i diversi specialisti, terapisti della riabilitazione e personale delle cure palliative di cui il paziente affetto da SLA ha bisogno. In questo modo gli vengono evitati sia la ricerca diretta che la gestione dei rapporti con specialisti, che non essendo coordinati tra di loro, sono difficilmente in grado di conoscere in modo completo le sue condizioni. Tutto questo anche attraverso la creazione di un clima relazionale fondato su empatia e rispetto che rendono la degenza al NeMO un’esperienza comunque positiva in un ambiente famigliare, tale che non sembra neppure di avere a che fare con un istituto di cura.
La seconda caratteristica sta nella logica sottostante l’approccio clinico che lo caratterizza: fare in modo che l’evoluzione della malattia venga il più possibile rallentata mantenendo il paziente in buone condizioni e facendogli capire che si può vivere la malattia anche in modo positivo, perseguendo obiettivi nuovi o godendo di aspetti della vita che prima si erano trascurati. Una strategia che punta sulla capacità di resilienza delle persone.
La terza caratteristica è di essere un esempio virtuoso di rapporto tra pubblico – nel caso trentino l’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari – e il privato, la Fondazione Serena.”
Papà, è riuscito a vivere gli anni della malattia con serenità e anche con un pizzico di positività facilitati soprattutto dalla vicinanza della mamma, mia, di Matteo e delle sue tre nipotine e di tutti quelli che lo stimavano e lo stimano tuttora. Da studioso e ricercatore osservava sé stesso e le persone che lo circondavano, esaminava con spirito critico ed estremamente lucido il mondo del welfare, ora però dall’altro lato, come utente. Ciò gli ha permesso di comprendere veramente e di vivere, ciò che aveva sempre teorizzato: l’estrema importanza del “welfare state”, lo stato sociale e quindi dell’accessibilità ai servizi socio sanitari da parte di tutti e nella gestione di malattie e situazioni così complesse.
Così scrisse ancora nel suo intervento al convegno: “Ad oggi, posso dire di essere anche un testimone di come una certa impostazione clinica, quella incentrata sulla persona - garantitami dal NeMO, dall’equipe delle cure palliative dell’Azienda Sanitaria e dalla mia dottoressa di base – unita alla ricerca possano trasformare una situazione da incubo in un periodo di vita non così diverso da quello di altre malattie, accettabile e produttivo. Infatti, l’immediata presa in carico da parte del NeMO ha messo me e la mia famiglia tranquilli rispetto alla pluralità dei controlli che la malattia rende necessari e mi ha aiutato a reagire positivamente alla riduzione di abilità che avvertivo e più in generale alla malattia.
Sapere di avere sempre alle spalle la pluralità di servizi citati sopra, mi ha permesso di pensare a vivere, non a come curarmi. E mi ha dato una grande tranquillità che mi ha consentito di selezionare gli obiettivi che ancora potevo raggiungere. Non ho cercato soluzioni in giro per il mondo e ho continuato con la mia vita.”
“È una cosa strana, questa malattia, racconta in un’intervista a Vita, in un primo momento allontana un po’ le persone. Hanno un po’ paura, si impressionano. Perciò ho adottato la strategia di non parlare direttamente della mia malattia, ma di farlo dire, perché così diviene più sopportabile per l’interlocutore.
Ci sono persone che non vengono a trovarmi perché non se la sentono e che poi piangono al telefono. Bisogna dare alle persone il tempo, anche il tempo di dire cosa io rappresento per loro, come sono e sono stato importante (anche gli studenti) e spesso scopro cose che non immaginavo e che fanno piacere».
Papà amava le persone e cercava di comprendere anche le loro difficoltà ed è riuscito, anche in un momento faticoso, in cui avrebbe potuto pensare a sé e al suo futuro, a mettere il prossimo nella condizione di poter affrontare la sua malattia.
«Viaggiare, insegnare, tenere conferenze: parlare in pubblico mi è ormai impossibile. Di notte, a volte, utilizzo una macchina per facilitare la respirazione e un paio di volte al giorno la macchina della tosse.
Ho accettato di recente anche l’alimentazione tramite sondino gastrico, quindi sono tante le cose che non posso più fare. Ma a ben guardare dell’insegnamento ero già un po’ stanco. E stanco anche di viaggiare, a settantaquattro anni certe cose pesano di più. Perciò, diciamo che la malattia mi ha tolto cose che già mi pesavano. In compenso ho scoperto cose nuove. Innanzitutto ho scoperto la famiglia, la gioia di stare in famiglia. Io avevo sempre girato tanto e (ridendo), con mia moglie ci volevamo bene, ma, come mi diceva spesso, più che altro passavo ogni tanto da casa. Ora invece si sta insieme, mi accudiscono lei e i miei due figli e questa è la più bella scoperta di questa malattia. Ho poi tre nipotine che mi riempiono dei loro disegni; la seconda, Aurora, di cinque anni, quando mi vede corre a darmi la mano per aiutarmi ad alzarmi e poi mi accompagna, ed è una cosa bellissima».
Come diceva: “Chiaramente non è vita facile, né per me, né per la mia famiglia, ma è sempre vita e, per ora, vita piena.”
Papà era consapevole che il Tofersen gli ha regalato del tempo e così ha vissuto la malattia e la sperimentazione come tempo “regalato”. Tempo da dedicare ad altre cose, alle proprie passioni, ai propri interessi, agli affetti.
Se è vero che la malattia ti permette di cambiare le tue priorità, è anche vero che ti mette fretta, quando il tempo corre velocemente. Per questo papà ha sempre scelto di continuare a lavorare e di vivere fino in fondo questa sua ultima intensa esperienza, nella sua interezza, fino a quando ha potuto.
“Quando non riuscirò più a perseguire i miei obiettivi, non forzerò la sopravvivenza”. E così è stato, lucido, forte e deciso, ha sempre pensato a noi, fino alla fine. Gli ultimi mesi, infatti, sono stati pesanti, faticosi, a tratti angoscianti e quando abbiamo dovuto dirgli che sarebbe dovuto rimanere in hospice a Mori, perché le sue condizioni non ci avrebbero permesso di riportarlo a casa, lui ha preso la sua decisione e si è addormentato. Ha permesso a tutti noi, comprese Maria, Aurora e Martina, di salutarlo e alla fine ci ha regalato un momento tanto doloroso quanto bellissimo, ci ha regalato di andarsene mentre eravamo tutti là insieme a lui, perché sapeva benissimo che di questo avevamo bisogno.
Il papà e la mamma hanno affrontato questa terribile prova con forza e coraggio, tra momenti di assoluto sconforto, ma anche momenti di serenità e speranza. La SLA, nonostante tutto il dolore che ci ha riservato, ci ha anche regalato delle bellezze, ci ha riunito e ci ha permesso di vivere momenti che altrimenti non avremmo vissuto mai, ci ha permesso di conoscere persone che ci hanno sostenuto in questo percorso. Ci ha permesso di tornare ad essere veramente famiglia e di comprendere quali sono le cose importanti nella vita. Se si è pronti a guardare bene, dietro a tutto il dolore, si nasconde un pizzico di magia, la magia dell’amore. L'amore per coloro che sono ammalati, l'amore di chi riesce a ritrovarsi, l'amore verso le persone che si incontrano lungo questo cammino pieno di ostacoli. L'amore di coloro che alla fine decidono di partire per il loro ultimo viaggio e di coloro che decidono di lasciarli andare.
L'amore è la sola cosa che rimane, indelebile, nonostante tutto.

Ho cominciato ad occuparmi dei pazienti con SLA tanti anni fa, un po’ per caso. Vent’anni fa circa l’infermiera del Day Hospital della Neurologia, in cui da poco avevo iniziato a lavorare, mi chiese se fossi disposta ad andare con lei in val di Rabbi per visitare un paziente a casa. Al primo sguardo vidi una famiglia che si arrangiava a fare tutto, senza alcun aiuto, e che guardava stupita il nostro arrivo, come se fossimo marziani... Non si aspettavano nulla da noi e non chiedevano nulla, perché mai nulla erano stati abituati a ricevere. In quell’occasione mi chiesi come potessi, in qualità di medico, aiutare pazienti così gravi.
Poi, gradualmente, ho iniziato a seguire i pazienti dalle fasi più precoci della malattia e a conoscere il dramma di queste persone e delle loro famiglie, che piano piano si vedono sfuggire la vita. Ricordo volti e nomi di tutti i pazienti che ho seguito in tanti anni, perché ogni storia mi è entrata nel cuore.
La mia difficoltà inizia quando devo comunicare la diagnosi: il tormento di sapere in anticipo che non troverò parole, espressioni, gesti adatti per dire a una persona che la sua vita non sarà mai più la stessa, che d’ora in avanti perderà ogni giorno qualche abilità, che i suoi muscoli non risponderanno più, che anche il movimento più banale diverrà via via più difficile fino ad essere impossibile, che mancherà il modo di parlare, mangiare o bere, finanche respirare...
Mi sento sempre come un giudice implacabile che emette la condanna a morte di persone che di nulla sono colpevoli. Ho davanti agli occhi lo sguardo disperato di ogni paziente e delle loro famiglie, so bene che in quel momento per molti di loro io sono il nemico, quella che senza tatto e senza pietà dice una cosa tanto cruda. C’è un modo per comunicare in maniera più delicata un messaggio del genere? Nessuno ce lo insegna. All’Università ci insegnano a sentirci “onnipotenti”, a dare soluzioni a problemi grandi e piccoli, ma a sentenziare la morte, chi ce lo insegna? Cerco sempre di far capire ai pazienti e alle loro famiglie che li accompagnerò nel loro difficile cammino, ma so bene che in quel momento loro non sentono che quelle tre maledette parole: Sclerosi Laterale Amiotrofica.
Negli anni, insieme agli unici due colleghi della provincia che condividevano con me la gestione dei pazienti con la SLA, abbiamo cercato di trovare soluzioni ai continui e vari problemi che ci venivano via via segnalati dai pazienti e dalle loro famiglie, abbiamo organizzato tavoli di confronto, ci siamo organizzati per fornire assistenza, dare ausili, sussidi economici....
Quando qualche anno fa la malattia colpì un mio conoscente, che diventò amico e che mi “costrinse” a conoscere la quotidianità dei malati e delle loro famiglie, i piccoli e grandi problemi che devono essere affrontati, sbatto il naso nell’inadeguatezza: compresi che non sarebbe stato possibile dare risposta a tutte le necessità di un malato e della sua famiglia.
Soprattutto capii e vissi da vicino il dramma di chi ogni giorno perde un po’ di quel che era, si sente scivolare dalle mani la vita, e di chi deve stare ad osservare impotente il calvario di chi ama.
Ecco, credo che questa vicenda mi abbia aiutato ad essere davvero al fianco di chi è ammalato e delle loro famiglie, perché anch’io ora mi sento impotente come loro: nonostante si sia riusciti a dare risposte migliori, nonostante l’arrivo del Centro NeMO abbia consentito di dare una “casa” a chi è ammalato, ogni giorno ho la consapevolezza che questo non basti e che mai potremo evitare l’angoscia, il senso di smarrimento, il senso di impotenza e di disperazione.
E allora, l’unica cosa che davvero si può fare, è comunque esserci, cercare di essere il punto di riferimento per chi a volte ha bisogno anche solo di essere ascoltato, o comunque di sapere che c’è qualcuno che cerca insieme a lui o lei la soluzione ai piccoli ed enormi problemi della quotidianità.
A volte il gesto più grande e l’aiuto maggiore che mi sento di riuscire a dare, è sedermi vicino ad un letto, tenere una mano e ascoltare le emozioni di chi, anche solo con gli occhi, ti dona un pezzo della sua storia, dei suoi sentimenti, della sua vita.
E ognuno di quei volti, di quegli occhi, di quelle persone, mi ha insegnato a vivere, ad apprezzare le piccole cose, a saper sorridere anche nelle difficoltà più grandi.
Ai pazienti e famiglie va la mia gratitudine perché, alla fine, camminare al loro fianco è un privilegio e un dono grande.

Manuela Basso, Professoressa associata in Biologia Applicata, Dipartimento di Biologia Cellulare, Computazionale e Integrata, Università di Trento. Dal 2018 coordinatrice della laurea magistrale in Biotecnologie Cellulari e Molecolari e dal 2021 Professore Associato in Biologia Applicata.

Ho passato moltissime ore della mia vita in laboratorio. Altrettante a pensare a come programmare il lavoro mio e delle mie collaboratrici e collaboratori, a come ottenere abbastanza finanziamenti per continuare la ricerca scientifica, pagare gli stipendi delle persone che lavorano con me, interpretare risultati e programmare nuovi esperimenti, discutere con collaboratori e collaboratrici in giro per tutto il mondo.
Questa è la mia vita, o almeno è una parte molto rilevante.
Ho iniziato ad occuparmi di malattie neurodegenerative, queste malattie insolenti e dolorose, dalla tesi di laurea nel lontano 2000. Allora vivevo in Piemonte e la tesi la svolsi vicino a casa, nel Bioindustry Park del Canavese. Proseguii con gli studi di dottorato presso l’Istituto Mario Negri, e lì imparai cos’è la SLA.
Il cervello, con la sua struttura complessa e misteriosa, svolge un ruolo fondamentale nel nostro organismo, consentendoci di interpretare e interagire con il mondo che ci circonda. Questo organo cruciale regola i nostri pensieri, le azioni e le funzioni vitali, influenzando la nostra capacità di apprezzare esperienze come una passeggiata in montagna, un dolce squisito o un gesto di affetto.
Costituito da una varietà di cellule, tra cui i ben noti neuroni, il cervello si dimostra estremamente complesso. La perdita di neuroni, un fenomeno che può compromettere la nostra abilità in certe azioni, varia nelle sue conseguenze a seconda dell’area coinvolta.
Se a morire sono i neuroni che si trovano nel midollo spinale, chiamati anche motoneuroni, non arrivano più i segnali che ci permettono di usare i muscoli e non riusciamo più a muovere, ad esempio, braccia o gambe e possono insorgere malattie come la Sclerosi Laterale Amiotrofica
La morte dei neuroni, intendiamoci, è del tutto fisiologica. Tant’è che invecchiando si diventa un pochino più lenti nei movimenti e magari anche nei pensieri. I circuiti cerebrali tollerano perdite di neuroni, quando questi eventi sono sporadici o puntuali.
Pensate ad un albero come l’acero. In estate è rigoglioso, pieno di foglie verdi. E questa è la nostra giovinezza. Col passare dei giorni (per noi stagioni), arriva l’autunno, nel quale le foglie cambiano colore. E poi nel tardo autunno le foglie iniziano a cadere, così come i neuroni iniziano a morire.
I neuroni malati accumulano difetti negli anni, cercano di riparare come possono e di contrastare la causa che porta questi difetti, ma ad un certo punto non sopportano più il danno e muoiono.
Nelle malattie neurodegenerative la morte di queste cellule ad un certo punto è continua e accelerata e la caduta delle foglie porta ad un albero spoglio.
La nostra sfida è riuscire a capire quando il danno inizia a provocare i primi cambiamenti nei neuroni, a correggerlo e aiutare i neuroni nella loro lotta alla sopravvivenza. Ma il cervello è ben protetto da barriere che impediscono a sostanze e organismi, che potrebbero danneggiarlo, di entrare al suo interno, come impediscono a noi di capire cosa stia accadendo. Non si possono fare biopsie, perché non è possibile prendere un pezzo di tessuto neuronale, e il suo mistero quindi resta tale, pur con l’avanzare della scienza e della ricerca. Molte cose sono state scoperte, molte restano ancora ignote. Questo mi ha sempre affascinato e ho colto la sfida.
Ero molto giovane quando l’ho colta, avevo 23 anni e tantissima energia e curiosità. Il laboratorio nel quale lavoravo non era esperto di Sclerosi Laterale Amiotrofica, che, vi dico, in realtà è molto difficile da studiare e comprendere a fondo dal punto di vista microscopico o molecolare.
Nella sua complessità molecolare la SLA è una malattia che non perdona e a cui non si trova cura. Non è semplice scrivere queste parole, perché a differenza di chi la malattia la vive tutti i giorni, chi ce l’ha, chi assiste, chi cura, io la SLA non la sento addosso. Non percepisco una difficoltà a muovermi, a deglutire, a respirare. Vedo raramente le persone affette dalla malattia. Non parlo spesso con loro, anche se so che sarebbero una risorsa per me.
Però la SLA la sento nella testa. Passo tanto tempo a pensarci. Penso a come migliorare i modelli che abbiamo in laboratorio per comprenderla meglio.
Fino a poco tempo fa passavo ore infinite in laboratorio nell’attesa che un risultato mi permettesse di capire qualcosa di nuovo, che un modello animale mi mostrasse se la terapia che avevo ipotizzato funzionare mostrasse veramente dei miglioramenti.
Ora ho molto meno tempo per stare al bancone con pipette, provette, cellule neuronali che crescono nei nostri incubatori e così, ogni volta che posso, mi confronto con le persone più brave di me, esperte in aspetti che non conosco bene e ragiono con loro sull’impatto delle osservazioni che facciamo in laboratorio.
Alle volte, quando i risultati non confermano quello che avevo ipotizzato, mi sento un po’ persa. Altre un po’ stanca. Però sta a me, a capo di un laboratorio, dare energia e trovare il lato interessante in ogni osservazione, per guidare nel modo migliore i giovani ricercatori che lavorano nel gruppo di ricerca.
Dovreste vederli! Alle volte entrano in ufficio emozionati, altre mi inviano i risultati sul telefono perché non possono aspettare la mattina seguente per mostrarmi che stiamo percorrendo la strada giusta. E questo mi emoziona, mi riempie di orgoglio e mi fa credere che ogni giorno, anche noi, con i nostri risultati, a piccoli passi, possiamo contribuire a sviluppare una terapia efficace per questa malattia.
A lavorare a questo progetto ci sono ragazzi e ragazze che nel pieno del loro entusiasmo giovanile passano le loro giornate con me in laboratorio. Ci sono collaboratori che incontri nel corridoio, in riunioni, per strada e ti aiutano a capire se la domanda che ti stai ponendo è quella corretta. Ci sono i clinici che accettano di provare ad assecondare la nostra visione. Ci sono le agenzie che ci offrono i finanziamenti e ai quali siamo estremamente grati. Ci sono i tecnici al CIBIO, gli amministrativi in Università che ci permettono di concretizzare le nostre idee. E infine ci sono i pazienti e le loro famiglie che ci incoraggiano, loro a noi…, e per i quali lavoriamo, per dar loro delle risposte.
Come tante parti di uno stesso corpo, tutti noi, ricercatori, tecnici, amministrativi, medici, operatori, soprattutto malati e familiari, ognuno ha un ruolo in questa avventura che è la ricerca e solo insieme possiamo sperare di ottenere un giorno il risultato che tutti aspettiamo. Perché lo otterremo, lo so.

Le cause della SLA sono ancora sconosciute, comunque è ormai accertato che la SLA non è dovuta ad una singola causa; si tratta invece di una malattia multifattoriale, determinata cioè dal concorso di più circostanze.

Le numerose ricerche in corso mirano a chiarire il ruolo di alcuni fattori:

Possibili meccanismi che causano la morte dei motoneuroni:

(Fonte: aisla.it)

Le cause della SLA sono ad oggi ancora sconosciute, ma la ricerca è sempre al lavoro e ad oggi sappiamo che le mutazioni genetiche, sporadiche o ereditarie, giocano un ruolo importante. 
Nel 85-90% dei casi, la SLA è sporadica. Con questo termine intendiamo che la malattia non si presenta nella famiglia e non viene trasmessa dai genitori alla prole. 
Nel restante 10-15% invece c’è una ereditarietà e viene definita come forma familiare. Sia individui con forma sporadica che familiare possono presentare mutazioni genetiche. 

Ad oggi, le mutazioni più comuni sono state identificate in quattro geni, chiamati C9orf72, SOD1, TARDBP, e FUS. Si contano però circa 40 geni associati alla malattia, che in alcuni casi sono stati visti favorirne l’insorgenza. Si pensa infatti che per sviluppare la SLA, oltre alla predisposizione genetica, ci debbano essere altri due eventi scatenanti: 

  1. L’avanzare dell’età
  2. Cause ambientali di vario tipo, come infezioni virali, inquinamento, sport, traumi.  

Il gene C9orf72 è molto complesso da descrivere perché ancora poco conosciuto. In C9orf72 c’è un’espansione anomala di 6 nucleotidi nella sequenza del DNA. Questa espansione altera non solo la funzione della proteina codificata, ma induce altri effetti tossici, come la produzione di peptidi che normalmente non sono presenti nelle cellule e non riescono ad essere completamente eliminati. Purtroppo, le terapie geniche studiate ad oggi e volte a silenziare i peptidi prodotti dalla forma espansa di C9orf72, non sono stati utili per i pazienti. Questo ci dimostra che è necessario studiare meglio la funzione della proteina C9orf72 per capire cosa sia necessario bloccare o ripristinare per migliorare la situazione

Il gene SOD1 è stato associato nel 1993 a forme sporadiche e familiari di SLA. Questo gene codifica per una proteina, chiamata superossido dismutasi, che partecipa all’eliminazione di radicali liberi nella cellula. Anni di ricerche in modelli animali che esprimono la forma mutata del gene per SOD1, hanno permesso di sviluppare la terapia QALSODY® (meglio conosciuta come Tofersen), approvata il 23 febbraio 2024 all’Agenzia Europea per i medicinali (EMA). 

La terapia utilizza un approccio per cui viene silenziata la proteina mutata. Questa terapia può essere somministrata SOLO ad individui con mutazione nel gene SOD1.

Il gene TARDBP codifica per la proteina TDP-43, la maggiore componente degli aggregati proteici. È una proteina essenziale per la vita delle cellule. Quando aggrega nelle inclusioni, la sua funzione di regolazione del processamento dell’RNA viene a mancare. Molti studi recenti cercano di definire se questa perdita di funzione possa aiutare a diagnosticare la malattia prima di quanto si faccia oggi attraverso l’esame dei biomarcatori.

Il gene FUS codifica per un’altra proteina che lega molecole di RNA. Anche in questo caso, come per TDP-43, i livelli di FUS devono stare entro dei limiti per non causare tossicità alla cellula.
Questi quattro geni producono proteine in ogni cellula del nostro corpo, non solo nel sistema nervoso. Non sappiamo perché alterazioni in queste proteine portino però alla morte selettiva dei motoneuroni.

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