La storia di Carlo, raccontata dalla figlia Anna e un po’ anche da Carlo
“Ho pensato che dovevo darmi un obiettivo. E così ho fatto.” “Quando scrivo, quando lavoro, non mi sento neanche malato”.
Papà era fatto così. Non si lasciava abbattere neanche da una sentenza. Era un uomo forte, che ha fatto del bene a tanti. Anche chi non lo conosceva di persona poteva sentire la sua immensa forza attraverso le sue parole riportate da un quotidiano e attraverso l’eco del suo lavoro di ricerca.
Si dice che chi ha frequentato Economia a Trento sia passato da lui, sempre. Docente dell’Università di Trento dal 1976 al 2019, presidente di Euricse (uno dei maggiori centri di studi e ricerca al mondo sull’economia sociale e cooperativa), insignito del titolo di commendatore, era un punto di riferimento per il mondo cooperativo.
Ma la vita, così intensa e così piena, gli ha riservato anche una grande prova, la più dura di tutte. E di riflesso la ha riservata anche a noi famigliari. Quando ricevette la diagnosi ebbe un momento di assoluto smarrimento. “Perché proprio a me?” È una domanda inevitabile, che non risparmia nessuno. Eppure, nonostante la malattia lo avesse portato a dover stravolgere la sua vita, non si è lasciato trascinare dallo sconforto. Papà, fin da subito, infatti, ha dovuto smettere di viaggiare e tenere conferenze, ma lui, da ricercatore quale era, ha permesso subito alla razionalità di subentrare e si è dato un nuovo obiettivo. Anzi, più di uno.
Durante gli anni di lavoro continuo e di presidenza di Euricse non aveva avuto il tempo per portare avanti alcuni progetti personali, perché troppo impegnato su diversi fronti. Ha colto il momento della malattia come un’opportunità per dedicarsi a nuove sfide: un volume sui contratti di rete per l’inserimento lavorativo, uno sull’impresa sociale, uno sul pluralismo delle forme d’impresa e, “se mai riuscirò” diceva, uno sulla rilevanza economica del meccanismo cooperativo e sulla sua diversità da quello del mercato e dell’autorità. È riuscito a pubblicare i primi 3. E pensare che sperava di chiudere almeno i primi 2!
Ha avuto una piccola fortuna, se così si vuole chiamare. “La malattia si presentava molto aggressiva e già dopo tre mesi dalla diagnosi avevo grosse difficoltà nella deglutizione, nel linguaggio e nell’uso della gamba destra”, racconta nel suo scritto letto al convegno per la Giornata delle Malattie Neuromuscolari tenutosi a Trento a marzo del 2023. “Se sono ancora qui in presenza, anche se in silenzio obbligatorio, lo devo con tutta probabilità – direi quasi sicuramente - alla ricerca. A fine 2021 mi è stato infatti comunicato da Torino, dove ero stato mandato subito dopo la diagnosi e avevo dato l’assenso per l’esame del DNA, che il mio tipo di SLA era di natura genetica e rientravo nel 2 o 3 percento di malati per i quali era stata predisposta una terapia sperimentale - il Tofersen - che aveva dato risultati positivi. Ho ovviamente accettato di sottopormi alla terapia, sempre seguito dal Centro NeMO e da allora gli unici peggioramenti che ho avuto si sono concentrati nella parte bulbare, quelli del linguaggio e del rilascio della mandibola. Riesco ancora a camminare e soprattutto a scrivere. Quando mi è stata diagnosticata la malattia nessuno sapeva di questo farmaco o meglio dei suoi risultati e questo fa ben sperare nelle potenzialità della ricerca, in cui tra l’altro è fortemente impegnata anche la mia Università con i progetti portati avanti dal Dipartimento del Cibio. Se il Tofersen fosse arrivato qualche mese prima probabilmente anche la parte bulbare potrebbe ancora funzionare.
Questa combinazione di un approccio clinico innovativo e di ricerca mirata mi ha permesso di concludere nel modo previsto il mio incarico in Euricse, di portare avanti i miei progetti, di continuare a interloquire con miei colleghi ed ex-collaboratori e di aiutarli in vario modo. Perfino di supervisionare i lavori nell’orto! E soprattutto di godere dell’affetto di mia moglie, dei figli, delle nipoti e degli amici.
Se da una parte la mia esperienza insegna che queste malattie neuromuscolari si affrontano meglio se non ci si lascia andare e ci si dà un obiettivo per cui vivere compatibile con le inevitabili menomazioni, dall’altra credo di non poter essere un esempio in senso stretto, perché i miei obiettivi si sono rivelati compatibili con la possibilità - anche se non perfetta - di usare le mani che la malattia mi ha lasciato. Per altri, con professioni diverse o con parti diverse lese dalla malattia, non sarebbe così facile come lo è stato per me.
Io poi ho una seconda fortuna che non tutti hanno: di avere una famiglia che si è fatta carico del mio problema e mi è di continuo aiuto e di avere una pensione che mi ha permesso di cambiare casa e di assumere una persona che mi aiuta nelle attività quotidiane.
E allora il pensiero va a chi, soprattutto più giovane di me, non ha queste possibilità, perché è solo, perché non ha la casa sbarrierata, o non ha ancora un reddito da pensione e magari ha pure una famiglia da mantenere. Penso quindi che sia necessario “chiudere il cerchio”: accanto a una clinica innovativa e all’impegno nella ricerca, servirebbe una struttura di accoglienza anche solo temporanea, sul modello del co-housing, che consenta alle persone di non finire, magari cinquantenni, in una casa di riposo, ma che sia in grado di permettere loro di riprogrammarsi la vita in un contesto di relativa serenità. Finché dalla ricerca non arriveranno altri risultati in grado di curare anche le malattie neuromuscolari, questo sarebbe un ulteriore importante aiuto per tutti coloro che ne sono colpiti.”
Papà si era affidato completamente alle cure dei suoi medici ed era felice di avere l’onore di poter usufruire di un centro clinico d’eccellenza che metteva al primo posto il paziente e lo prendeva in carico globalmente.
“Il NeMO si distingue da altri centri clinici per almeno tre caratteristiche. Innanzitutto perché mette il “paziente al centro”, cioè si fa carico di garantire la presenza o il raccordo con i diversi specialisti, terapisti della riabilitazione e personale delle cure palliative di cui il paziente affetto da SLA ha bisogno. In questo modo gli vengono evitati sia la ricerca diretta che la gestione dei rapporti con specialisti, che non essendo coordinati tra di loro, sono difficilmente in grado di conoscere in modo completo le sue condizioni. Tutto questo anche attraverso la creazione di un clima relazionale fondato su empatia e rispetto che rendono la degenza al NeMO un’esperienza comunque positiva in un ambiente famigliare, tale che non sembra neppure di avere a che fare con un istituto di cura.
La seconda caratteristica sta nella logica sottostante l’approccio clinico che lo caratterizza: fare in modo che l’evoluzione della malattia venga il più possibile rallentata mantenendo il paziente in buone condizioni e facendogli capire che si può vivere la malattia anche in modo positivo, perseguendo obiettivi nuovi o godendo di aspetti della vita che prima si erano trascurati. Una strategia che punta sulla capacità di resilienza delle persone.
La terza caratteristica è di essere un esempio virtuoso di rapporto tra pubblico – nel caso trentino l’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari – e il privato, la Fondazione Serena.”
Papà, è riuscito a vivere gli anni della malattia con serenità e anche con un pizzico di positività facilitati soprattutto dalla vicinanza della mamma, mia, di Matteo e delle sue tre nipotine e di tutti quelli che lo stimavano e lo stimano tuttora. Da studioso e ricercatore osservava sé stesso e le persone che lo circondavano, esaminava con spirito critico ed estremamente lucido il mondo del welfare, ora però dall’altro lato, come utente. Ciò gli ha permesso di comprendere veramente e di vivere, ciò che aveva sempre teorizzato: l’estrema importanza del “welfare state”, lo stato sociale e quindi dell’accessibilità ai servizi socio sanitari da parte di tutti e nella gestione di malattie e situazioni così complesse.
Così scrisse ancora nel suo intervento al convegno: “Ad oggi, posso dire di essere anche un testimone di come una certa impostazione clinica, quella incentrata sulla persona - garantitami dal NeMO, dall’equipe delle cure palliative dell’Azienda Sanitaria e dalla mia dottoressa di base – unita alla ricerca possano trasformare una situazione da incubo in un periodo di vita non così diverso da quello di altre malattie, accettabile e produttivo. Infatti, l’immediata presa in carico da parte del NeMO ha messo me e la mia famiglia tranquilli rispetto alla pluralità dei controlli che la malattia rende necessari e mi ha aiutato a reagire positivamente alla riduzione di abilità che avvertivo e più in generale alla malattia.
Sapere di avere sempre alle spalle la pluralità di servizi citati sopra, mi ha permesso di pensare a vivere, non a come curarmi. E mi ha dato una grande tranquillità che mi ha consentito di selezionare gli obiettivi che ancora potevo raggiungere. Non ho cercato soluzioni in giro per il mondo e ho continuato con la mia vita.”
“È una cosa strana, questa malattia, racconta in un’intervista a Vita, in un primo momento allontana un po’ le persone. Hanno un po’ paura, si impressionano. Perciò ho adottato la strategia di non parlare direttamente della mia malattia, ma di farlo dire, perché così diviene più sopportabile per l’interlocutore.
Ci sono persone che non vengono a trovarmi perché non se la sentono e che poi piangono al telefono. Bisogna dare alle persone il tempo, anche il tempo di dire cosa io rappresento per loro, come sono e sono stato importante (anche gli studenti) e spesso scopro cose che non immaginavo e che fanno piacere».
Papà amava le persone e cercava di comprendere anche le loro difficoltà ed è riuscito, anche in un momento faticoso, in cui avrebbe potuto pensare a sé e al suo futuro, a mettere il prossimo nella condizione di poter affrontare la sua malattia.
«Viaggiare, insegnare, tenere conferenze: parlare in pubblico mi è ormai impossibile. Di notte, a volte, utilizzo una macchina per facilitare la respirazione e un paio di volte al giorno la macchina della tosse.
Ho accettato di recente anche l’alimentazione tramite sondino gastrico, quindi sono tante le cose che non posso più fare. Ma a ben guardare dell’insegnamento ero già un po’ stanco. E stanco anche di viaggiare, a settantaquattro anni certe cose pesano di più. Perciò, diciamo che la malattia mi ha tolto cose che già mi pesavano. In compenso ho scoperto cose nuove. Innanzitutto ho scoperto la famiglia, la gioia di stare in famiglia. Io avevo sempre girato tanto e (ridendo), con mia moglie ci volevamo bene, ma, come mi diceva spesso, più che altro passavo ogni tanto da casa. Ora invece si sta insieme, mi accudiscono lei e i miei due figli e questa è la più bella scoperta di questa malattia. Ho poi tre nipotine che mi riempiono dei loro disegni; la seconda, Aurora, di cinque anni, quando mi vede corre a darmi la mano per aiutarmi ad alzarmi e poi mi accompagna, ed è una cosa bellissima».
Come diceva: “Chiaramente non è vita facile, né per me, né per la mia famiglia, ma è sempre vita e, per ora, vita piena.”
Papà era consapevole che il Tofersen gli ha regalato del tempo e così ha vissuto la malattia e la sperimentazione come tempo “regalato”. Tempo da dedicare ad altre cose, alle proprie passioni, ai propri interessi, agli affetti.
Se è vero che la malattia ti permette di cambiare le tue priorità, è anche vero che ti mette fretta, quando il tempo corre velocemente. Per questo papà ha sempre scelto di continuare a lavorare e di vivere fino in fondo questa sua ultima intensa esperienza, nella sua interezza, fino a quando ha potuto.
“Quando non riuscirò più a perseguire i miei obiettivi, non forzerò la sopravvivenza”. E così è stato, lucido, forte e deciso, ha sempre pensato a noi, fino alla fine. Gli ultimi mesi, infatti, sono stati pesanti, faticosi, a tratti angoscianti e quando abbiamo dovuto dirgli che sarebbe dovuto rimanere in hospice a Mori, perché le sue condizioni non ci avrebbero permesso di riportarlo a casa, lui ha preso la sua decisione e si è addormentato. Ha permesso a tutti noi, comprese Maria, Aurora e Martina, di salutarlo e alla fine ci ha regalato un momento tanto doloroso quanto bellissimo, ci ha regalato di andarsene mentre eravamo tutti là insieme a lui, perché sapeva benissimo che di questo avevamo bisogno.
Il papà e la mamma hanno affrontato questa terribile prova con forza e coraggio, tra momenti di assoluto sconforto, ma anche momenti di serenità e speranza. La SLA, nonostante tutto il dolore che ci ha riservato, ci ha anche regalato delle bellezze, ci ha riunito e ci ha permesso di vivere momenti che altrimenti non avremmo vissuto mai, ci ha permesso di conoscere persone che ci hanno sostenuto in questo percorso. Ci ha permesso di tornare ad essere veramente famiglia e di comprendere quali sono le cose importanti nella vita. Se si è pronti a guardare bene, dietro a tutto il dolore, si nasconde un pizzico di magia, la magia dell’amore. L'amore per coloro che sono ammalati, l'amore di chi riesce a ritrovarsi, l'amore verso le persone che si incontrano lungo questo cammino pieno di ostacoli. L'amore di coloro che alla fine decidono di partire per il loro ultimo viaggio e di coloro che decidono di lasciarli andare.
L'amore è la sola cosa che rimane, indelebile, nonostante tutto.